Un utile modo per ripensare alle relazioni dell’Italia con l’Unione europea sarebbe quello di occuparsi con maggiore attenzione delle politiche di coesione, di cui altri paesi membri sembrano fare miglior uso.
In Italia, ancora una volta la spesa comunitaria arranca, confermando – per il ciclo di programmazione 2014-2020 – le stesse difficoltà osservate in passato.
Sembra che si sia normalizzata la complessità dei meccanismi di gestione delle politiche comunitarie in Italia, all’interno dei quali rimane vincente chi gode di posizioni di rendita per riproporre di volta in volta artificiosi meccanismi contabili a sostegno di una spesa che è diventata strutturalmente artefatta per la collettività.
Se da un lato è ben chiara la necessità di occuparsi non soltanto della quantità della spesa, ma soprattutto della qualità della stessa, dall’altro lato sembra essere diventata non più rinviabile la rivisitazione del modello comunitario che guida e indirizza la politica di coesione dell’UE. È su questi temi che si dovrebbe puntare per dare slancio al ruolo che l’Italia può e deve giocare in Europa.
Quanto ha speso finora l’Italia. Del budget complessivo a disposizione dell’Italia, il Fondo con la dotazione finanziaria più cospicua è il FESR, quasi a quota 34 miliardi, che si caratterizza per un dato di spesa associato ai progetti selezionati inferiore alla media nazionale, ossia pari al 5%. Un dato più basso si registra per il FEAMP (3%), che poggia però su una dotazione (978 milioni di euro) notevolmente inferiore rispetto alla mole di risorse mobilitata dal FESR. Il Fondo Sociale Europeo, con una spesa dell’8% rispetto al budget di oltre 17 miliardi di euro, è il linea con la media nazionale (Tabella 1).
I dati per regione. Analizzando i dati della Commissione europea per singolo Programma Operativo Regionale, si rileva un’ampia variabilità della spesa all’interno di ciascun Fondo. Considerando, ad esempio, i PSR 2014-2020 alimentati dal FEASR si passa dal 3% del Friuli-Venezia Giulia al 30% della Provincia Autonoma di Bolzano (Figura 1). Allo stesso modo per il FESR la forbice di spesa è del 0,2%-17% (Figura 2), con 3 POR al di sotto dell’1% di spesa (Sicilia, Bolzano e Abruzzo), mentre per il FSE il range di spesa è dell’1%-25% (Figura 3).
Da rilevare come, a maggio 2018, la Calabria, per la quota finanziata dal FESR sia l’unica regione tra quelle meno sviluppate a superare, seppure di poco, la media di avanzamento di spesa dei POR FESR 14-20 (6% vs 5%). Si fa leggermente meglio rispetto alla media nazionale, ma i ritardi della spesa rimangono elevati: le risorse da spendere sono ancora il 94% di quelle programmate. Un simile risultato si registra per lo sviluppo rurale: le uniche due regioni tra quelle meno sviluppate che al momento hanno oltrepassato la media di spesa dei PSR 14-20 (pari al 12%) sono la Calabria (16%) e la Sicilia (15%).
Dati meno incoraggianti per il FSE: la Calabria, per la quota di risorse del POR ascrivibili al Fondo Sociale, è tra le ultime in termini di avanzamento di spesa, attestandosi al 2% insieme a Molise e Abruzzo, davanti solo alla P.A. di Bolzano.
Discussione. La limitata capacità di spesa dei Fondi 2014-2020 ripropone la necessità di discutere non solo di efficienza della (bassa) spesa, ma anche della (bassa) efficacia della stessa. Se mai nel corso degli ultimi 25 anni avessimo avuto dei dubbi che il meccanismo redistributivo dei Fondi strutturali se non proprio un limite genetico qualche difficoltà oggettiva la creava (e non solo all’Italia), appare evidente che siamo nuovamente alle prese con una situazione potenzialmente molto critica. Ci troviamo di fronte ad un tipico caso di amministrazioni che non apprendono dall’esperienza se non il sistema degli escamotage a cui ricorrere per fare fronte all’emergenza. Ovviamente tutto sempre nel rispetto massimo delle regole, ma con un’efficacia della policy quantomeno discutibile. Anzi per il Mezzogiorno d’Italia, la programmazione 2007-2013 ha conclamato un pericoloso effetto spiazzamento delle risorse ordinarie con quelle straordinarie che sottende una deriva di mission irreversibile della politica di coesione. Più o meno tutti temono una contrazione nel futuro bilancio dell’Unione delle risorse destinate alla coesione ma, più di tutti, a tremare sono proprio le regioni meno sviluppate che potrebbero ritrovarsi di fronte ad un ridimensionamento delle risorse straordinarie dei fondi strutturali unitamente alla ormai atavica contrazione di quelle ordinarie.
Nel ciclo di programmazione 2014-2020 ciò che da subito si è ingrippato con maggior forza che nel 07-13 è la fase di messa a terra dei progetti, ossia la capacità da parte delle amministrazioni di svolgere il loro fondamentale ruolo di stazione appaltante. Del resto, secondo le recenti stime ANCE[1], il dato relativo agli investimenti in opere pubbliche è scoraggiante: si tratta, infatti, di una contrazione pari al 51,1% dal 2007 al 2017, con un picco in basso proprio nell’ultimo biennio (-4,7% tra il 2015 e il 2016 e -3,0% dal 2016 al 2017). Mettere sul banco degli imputati la sola riforma del codice degli appalti sarebbe un errore, ma considerare tale riforma ancillare rispetto alle difficoltà in essere sarebbe altrettanto miope e sbagliato. Senza contare poi il labirintico sistema dei controlli di primo livello, una vera e propria palude che incombe su tutti i programmi operativi e che sottende un’implicita crisi della tanto sbandierata e auspicata accountabilitydell’ultimo decennio. Ma perché, ad esempio, non semplificare rafforzando e implementando il sistema dei costi standard – come avviene per diversi programmi sui fondi diretti – che pure è previsto dai regolamenti comunitari?
Conclusioni. Chi vuole una vera trasformazione della politica di coesione dovrebbe guardare al prossimo bilancio dell’Unione come ad un’opportunità, piuttosto che una minaccia dove l’unico obiettivo è difendere lo status quo. L’opportunità di ripensare ai meccanismi redistributivi della coesione, ovvero al “come” oltre che al “quanto”. Un’opportunità per l’Italia di riconsiderare la politica di coesione come una politica per la crescita e lo sviluppo complementare, e non sostitutiva, di quella nazionale, senza cadere nella trappola della performance finanziaria dei programmi troppo spesso scollegati dalle effettive necessità territoriali e cuciti addosso ad improbabili disegni di riforma. Di ciò, però, si stenta a trovarne traccia nel “Libro bianco sul futuro dell’Europa”, presentato a marzo 2017 dalla Commissione, nonché nella “Posizione italiana sulla Politica di Coesione post-2020”.
*di Walter Tortorella da Open Calabria